L’altare ligneo della chiesa di S. Maria delle Grazie del complesso dei frati Cappuccini è tra i manufatti artistici più iconici della città di Avellino, un vero e proprio unicum che caratterizza la chiesa costruita negli anni Ottanta del Cinquecento.
La macchina d’altare occupa l’intera parete di fondo dell’abside con funzione di quinta, inquadrata dall’arco di trionfo: un vero e proprio apparato scenografico improntato sulla articolata e complessa commistione di elementi architettonici e manufatti lignei, con la cona che diventa parte integrante della dimensione spaziale della chiesa. Sicuramente una costruzione prospettica non casuale, ma studiata per aderire ad un programma ideologico rappresentativo ben definito, strutturata affinché l’occhio del fedele, nell’accedere in chiesa, fosse convogliato verso il fulcro del racconto iconografico, ovvero la Madonna delle Grazie. Il dossale si innalza sull’intera lunghezza dell’altare incorniciando quattro dipinti su tavola: al centro la Madonna delle Grazie con angeli ed anime purganti, al lato sinistro San Francesco, al lato destro San Gennaro, in funzione di intercessori presso la Vergine, così come suggeriva la pedagogia riformista post conciliare conforme alle indicazioni sinodali, ed infine nel riquadro del timpano l’Eterno Padre.
La composizione architettonica della macchina d’altare, mediata dalla cultura rinascimentale, si basa, come direbbe Bruno Zevi, su forme geometriche elementari ed armonia delle parti, con la scelta di elementi piani e curvi che decorano e ripartiscono lo spazio. Ad una attenta analisi dell’ornato, che si avvale dell’elegante alternarsi di forme e colori del legno, spazi geometricamente definiti e fantasiose decorazioni di foglie e girali, e poi ancora colonne e lesene coronate da capitelli compositi, pinnacoli e pigne, si avverte una sottesa comunicazione di carattere didascalico teologico. Certamente il tema decorativo di questo dossale non è involontario: la scelta delle partiture geometriche, dei motivi vegetali e dei colori e degli elementi mediati dall’architettura classica sono il frutto di uno studiato progetto nel quale, la valenza simbolica dei singoli elementi, assolveva in pieno ai dettami sinodali sulla pedagogia dell’immagine sacra introdotti a Napoli dal cardinale Alfonso Gesualdo.
L’ignoto progettista della cona risulta ancora profondamente intriso di cultura classicista, come dimostra l’ordine formale delle superfici e l’utilizzo di elementi decorativi caratterizzanti l’architettura greca e poi romana, quali colonne, lesene, architravi, timpano. Ma, nel contempo, l’artista non è esente da contaminazioni artistiche della cultura barocca che nei primi decenni del XVII faceva timidamente capolino anche in provincia. Sono sicuramente motivi decorativi barocchi la serie di volute, riccioli e pigne che ornano le parti laterali del dossale, così come le decorazioni poste lateralmente a coronamento del cornicione aggettante, formate da una base quadrangolare sormontata da un pinnacolo circondato da volute e riccioli. Il doppio cornicione aggettante, posto tra la zona inferiore del dossale, ed il timpano curvo, sono motivi mediati dalla cultura secentesca romana.
Allo stato attuale della ricerca non risultano documenti attestanti la committenza, il progettista, l’esecutore e la datazione dell’opera per cui lo studio dell’opera può avvalersi dei soli dati oggettivi. Da una lettura stilistica, come la contemporanea presenza di elementi architettonici ed ornamentali rinascimentali e barocchi, il manufatto può essere ascrivibile ai primi decenni del Seicento, quando le due culture artistiche ancora si soprapponevano ed intersecavano senza distinzioni.
Questa ipotesi può essere basata anche su fondamenti storici documentati dallo Scandone: la costruzione del complesso monastico, iniziata nel 1581, con la posa della prima pietra da parte del vescovo Ascanio Albertini, venne portata a termine nel 1584 mentre era principe di Avellino Marino I Caracciolo; finita la fabbrica del monastero e della chiesa, che dovette rappresentare un impegno economico notevole da parte dei monaci cappuccini e dei benefattori, passarono degli anni prima che la chiesa fosse dotata di arredi interni; infatti la chiesa fu consacrata solo nel 1609, mentre era vescovo Muzio Cinquini, secondo quanto afferma Riccardo Sica nel ricco testo sui dipinti della chiesa di S. Maria delle Grazie. Non sono noti documenti di come e quando la chiesa cominciò ad arricchirsi di opere d’arte, ma da quanto rilevato in fase di restauro i dipinti attribuiti a Silvestro Buono, ovvero i già citati Madonna delle Grazie con angeli ed anime purganti, San Gennaro, San Francesco ed Eterno Padre, furono forse acquistati prima della morte del pittore avvenuta nel 1598 e poi adattati alla cona d’altare. Infatti le tavole risultano tagliate sui lati con la perdita di parte della superficie dipinta. L’ipotesi di una committenza dei dipinti anteriore alla costruzione della macchina capo altare può essere suffragata non solo da confronti effettuati con opere coeve dello stesso autore, ma anche considerando le vicende dell’altro dipinto di Silvestro Buono presente in questa chiesa.
La tavola dipinta raffigurante La Pietà, sulla quale in fase di restauro si erano lette le cifre 1551, aveva segnato la biografia e la cultura artistica dell’autore oltre alla sua presenza nella chiesa avellinese; ma a seguito di documenti ritrovati da Pierluigi Leone de Castris, citati nel suo catalogo Pittura del Cinquecento a Napoli 1573-1606, Andrea Zezza in un suo intervento negli Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa del 2000 ha rivoluzionato la cronologia dell’artista, datando l’opera per analogie stilistiche al 1591.
|