Nei secoli la storia personale di Carlo Gesualdo, più che il suo genio musicale, ha eccitato la fantasia popolare e quella di poeti, scrittori e registi, affascinati dalla forza distruttiva e creativa delle passioni che sottendono la torbida vicenda. Da Tasso a Brantome, da Anatole France ad Huxley, l’assassinio della bellissima Maria d’Avalos e del suo amante Fabrizio Carafa, su commissione e alla presenza di Carlo Gesualdo, vicenda che coinvolgeva tre delle più potenti casate europee, ha fornito materia per composizioni poetiche e racconti romanzeschi.
Dopo il duplice omicidio Carlo Gesualdo temendo le ritorsioni delle famiglie d’Avalos e Carafa, non per aver infranto il codice penale in quanto la flagranza di adulterio era ritenuto delitto d’onore, ma per la violazione del codice cavalleresco in quanto Fabrizio era stato ucciso dagli scherani di Carlo, quindi non da un suo pari, Gesualdo si rifugia con i suoi fedelissimi nel castello di Gesualdo.
Nella solitudine del suo esilio Carlo, prostrato nel fisico e straziato nell’anima, elabora il suo dolore trascorrendo le sue giornate esercitandosi al cembalo ed all’arciliuto. La sua indole di uomo pacifico ed introverso, i suoi sentimenti più intimi, forse l’amore per la donna ritenuta la più bella di Napoli, erano stati sacrificati alle ragioni dell’onore, alle leggi della sua epoca, alla volontà del casato. Egli era libero perché la legge lo aveva assolto, i suoi familiari erano fieri di lui, i d’Avalos ed i Carafa avevano rinunciato a vendicare la morte dei due amanti; ma era prigioniero del suo rimorso e delle sue ossessioni, comportandosi secondo le convenzioni sociali del suo tempo aveva tradito la sua coscienza di uomo, e viveva il tormento di un’anima in pena.
In lui convivevano, fino al paradosso, l’assoluto immanentismo epocale e l’assoluta libertà espressiva del suo linguaggio musicale. La musica, ragione principale della sua vita, era l’unico balsamo che leniva le sue ferite. La padronanza della tecnica e la capacità d’immaginazione raggiunsero traguardi sublimi riuscendo a combinare alla musica delle parole la musica dei suoni.
Il primo anno di permanenza nel castello di Gesualdo, in attesa di un attacco nemico evitato per opportunità politiche, trascorse nella macerazione più atroce della sua anima, aggrappandosi alla fede cristiana intesa nei suoi aspetti più interiori, in un rapporto drammatico tra un Dio severo ed esigente e l’uomo peccatore, bisognoso di perdono e di pietà.
Nell’anno seguente, il 1591, la morte del padre, avvenuta a Calitri, costrinse Carlo ad assumere il potere di un vasto territorio feudale che si estendeva dal Tirreno all’Adriatico. Fece quindi ritorno a Napoli dove cercò ancora di placare il suo rimorso e di attenuare il dolore scrivendo e componendo musica, quella musica che a soli due anni dalla sua morte, nel 1615, lo consacrava per mano del Blancano Princeps Musicorum ac Melopaeorum.
Gesualdo, infatti, è più giusto che sia ricordato come esimio maestro e compositore di madrigali, ovvero di quel genere musicale che è il risultato della fusione della tecnica polifonica nordica con la tipica canzone all’italiana costituita dalla frottola e dalla villanella. Egli, secondo Doni, era il genio di questa musica, poiché in lui si fondevano il talento e l’ispirazione del grande compositore che sapeva rendere alla vita i più nascosti sentimenti dell’anima.
Gesualdo ritiene che la musica non deve essere l’ancella della parola, la parola è solo una occasione tra quelle che ispirano l’evento musicale. I suoi Responsoria sono capolavori tragici, nei quali il pensiero musicale di Gesualdo ha trasformato in geometrie sonore il senso dell’essere, la cognizione dell’amore e della morte, i temi eterni dell’umanità, la passione ed il dolore della sua vita.
Nel febbraio del 1594 Carlo raggiunse Ferrara dove, nella cappella del castello, con una cerimonia semplice si unì in matrimonio con Eleonora d’Este. Al suo seguito una camerata fedele di maestri suonatori e cantori, da Scipione Stella a Fabrizio Filomarino, da Antonio Grifone a Giandomenico Montella, artisti capaci di consolare la sua solitudine che nemmeno le seconde nozze riuscirono a lenire. Esacerbato dai sensi di colpa, attanagliato da un senso di diffusa inquietudine e dall’angoscia esistenziale che il matrimonio sembrava aver risvegliato, abbandonò Ferrara. Un lungo viaggio che lo porterà prima a Venezia, poi a Gesualdo, a Firenze e nuovamente a Ferrara alla fine dell’anno 1594. I due anni seguenti furono straordinariamente fecondi per la creatività musicale dell’artista, ma non altrettanto per la sua pace interiore. Sembrava quasi che il suo talento avesse bisogno del tormento più profondo dell’anima per esprimere i suoi sentimenti più lirici. Allora abbandonò ancora Ferrara e tornò a Gesualdo dove trascorre gli ultimi anni della sua vita sopportando tragici dolori, dapprima la morte del figlio Alfonsino, nato dal matrimonio con Eleonora d’Este, poi la morte dello zio cardinale Alfonso Gesualdo, che amava come un padre, ed infine la morte del figlio primogenito Emanuele, figlio di Maria d’Avalos, in seguito ad una caduta da cavallo. Carlo Gesualdo, ormai stremato dal dolore atroce ed inconsolabile per la morte dei figli e dalle malattie, si spense nella Stanza dello Zembalo la sera dell’8 settembre 1613.
Ci piacerebbe infine che Carlo Gesualdo fosse ricordato per il suo mecenatismo da principe non solo nei confronti di compositori e virtuosi di strumenti musicali, ma anche perché durante i suoi soggiorni a Gesualdo il paese si arricchì di edifici religiosi e di opere d’arte di grande interesse. Citiamo ad esempio il Perdono di Gesualdo, tela di grandi dimensioni che Giovanni Balducci dipinse nel 1609, ritenuta dalla tradizione l’icona del pentimento, nella quale compare lo stesso Carlo, la seconda moglie Eleonora, San Carlo Borromeo, zio di Carlo perché fratello della madre Geronima, Cristo e una schiera di santi e di anime purganti.
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