La dominazione dei Caracciolo ad Atripalda cominciò nel 1564 quando Domizio permutò il feudo posseduto da Giacomo Pallavicino Basadonna, finanziere genovese che nel 1559 l’aveva acquistato per 60.200 ducati da Alfonso Castriota, con dei territori posseduti dalla sua casata nel Ducato di Milano. Alla sua morte, nel dicembre del 1576, gli successe il figlio Marino I quale secondo duca di Atripalda. Marino fin da giovanissimo diede prova nelle armi di grandissimo valore partecipando nel 1571, insieme al padre e ad altri nobili napoletani, alla battaglia di Lepanto combattuta dalla Lega cristiana contro i Turchi.
Nel 1581, a nome di sua moglie Crisostoma Carafa, comprò dalla Regia Corte per sé e per i suoi eredi al prezzo di 113.469 ducati la città di Avellino, il casale di Bellezze ed alcuni territori di pertinenza di Parolise. Nello stesso anno Marino I ottenne dal re lo spostamento della Regia Udienza da Avellino a Montefuscolo, oggi Montefusco, dove rimase fino al 1806, anno in cui con l’eversione feudale si ebbe la fine del dominio dei Caracciolo.
In seguito alla unificazione politica di Atripalda ed Avellino Marino I si adoperò per sedare l’antica contesa tra i due territori e, tra il 1583 ed 1585, con una serie di atti pubblici, i canonici di Avellino rinunciarono alle pretese sulla Chiesa di Atripalda. Il principe inoltre fu molto munifico verso gli ordini religiosi di Atripalda, specialmente verso quello degli Alcantarini, che si stabilirono nella cittadina del Sabato nel 1589. Filippo II il 25 aprile 1589 gli accordò il titolo di principe di Avellino regiaque auctoritate nostra dictu ducem Marinum Caracciolorum ipsiusque erede, et successores ordine successivo principes dicte urbis Avellini.
Marino I governò, quindi, un principato che comprendeva 11 feudi e 11 università tra la valle del Sabato e quella dell’Irno, tra il Principato Ultra e quello Citra. La modernità della gestione feudale dei Caracciolo, cominciata con Marino I, consiste non solo nell’aver perseguito l’omogeneità territoriale, riuscendo a realizzare un modello amministrativo articolato e razionale, e ad intessere una fitta rete di alleanze sia interne che esterne che consentì di controllare in modo diretto il feudo, ma soprattutto nell’aver incentivato un apparato produttivo non solo agricolo, ma anche industriale e commerciale. E’ merito di Marino I l’aver introdotto e regolamentato in Atripalda, Avellino e Serino l’arte della lana, che tanta importanza ebbe nella vita economica del feudo fino al XIX secolo; anche l’industria siderurgica attivata sin dal Medioevo, con i Caracciolo ebbe un notevole incremento, sfruttando l’energia idrica dei fiumi irpini, così come l’attività molitoria.
La scultura in mostra, costituita da marmo bianco a venature grigie, collocata in origine sulla facciata della Dogana di Avellino, ritrae Marino I Caracciolo, in età matura, nella sua veste di uomo d’armi. Il primo principe di Avellino è raffigurato a figura intera in posizione incedente nella sua possente esuberanza fisica. Il peso del manufatto è maggiormente distribuito nella parte destra che ha come rafforzamento la struttura della lancia, al lato opposto ai piedi del condottiero è posto un elmo con la celata calata che, oltre a ricordare il valore militare del soggetto ritratto, ha la funzione di controbilanciare i pesi equilibrando il baricentro della struttura. Nonostante il deterioramento che l’opera ha subito nel tempo a causa della sua esposizione alle intemperie sul modellato vigoroso si possono ancora leggere i particolari dell’armatura spagnola scolpiti con sicurezza di mestiere: il collare, le spallacce, il pettorale decorato con motivi fitomorfi, la falda a cinque lame legata da cinghie, la scarsella, la cotta in maglia di ferro ondulare, le ginocchielle e le sovrascarpe..
La statua del nobile principe dal volto malinconico, gli occhi inespressivi, la fronte alta e stempiata e con i baffi e la barba fluenti, si colloca nella produzione della bottega di Geronimo D’Auria nel solco della tradizione che l’artista deriva dallo stile paterno. Al confronto con altre opere della stessa bottega, ad esempio la statua di Marcello Caracciolo del monumento funebre presente nella chiesa di San Giovanni a Carbonara, attribuito a Giovanni Domenico D’Auria e Annibale Caccavello e alla lapide con giacenti della chiesa di Donna Regina Vecchia, i dati iconografici e stilistici risultano tanto convergenti da far pensare alla medesima bottega ed ad un lasso di tempo che intercorre tra il 1575 ed il 1600. L’opera in passato, così come la lastra marmorea della cona d’altare della chiesa di Santa Maria del Carmine di Avellino, era stata attribuita al Fanzago, probabilmente per il ruolo che l’artista ricopri alla corte dei Caracciolo di Avellino ma anche per la sua collocazione nella facciata della Dogana di Avellino che fu progettata dall’architetto di Clusone. Tuttavia la scultura per il modellato, l’impianto iconografico e le caratteristiche stilistiche ha fatto orientare la critica verso una datazione e un ambito culturale decisamente antecedente alla produzione fanzaghiana. Inoltre si può argomentare che già prima del Fanzago la bottega dei D’Auria, prediletta dall’intera nobiltà napoletana, aveva servito la famiglia Caracciolo con altre opere presenti ad Avellino e nel territorio irpino. La statua, poi, scolpita a tutto tondo, è stata adattata alla nicchia della facciata della dogana di Avellino scalpellando la parte posteriore dell’elmo della gamba sinistra e del gonnellino.
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